Tratto dal sito di "Melting Pot Europa"
E’ stato approvato nella mattinata del 18 giugno il testo della direttiva rimpatri, ribatezzata per la sua efferratezza "direttiva della vergogna".
Con 369 voti favorevoli, 197 contrari e 106 astensioni, il Parlamento
Europeo ha adottato il testo così come proposto dalla Commissione dopo
l’accordo raggiunto dai governi europei lo scorso 4 giugno.
Le norme introdotte disegnano una immagine dell’Europa accerchiata dal
filo spinato, mentre ancora oggi, al di là della blanda enunciazione di
principi confezionata dall’Unione proprio nei giorni scorsi in materia
di immigrazione ed asilo, manca una vera e propria strategia comune ed
innovativa rispetto agli ingressi legali.
Ma se quella che emerge è un immagine dell’Europa con aspirazioni da fortezza, la realtà ci racconta l’inarrestabilità dei processi migratori e l’inafferrabilità dei loro protagonisti.
Il provvedimento così adottato si presenta quindi come un ulteriore
minaccia, un ulteriore dispositivo di ricatto per piegare, controllare
ed arrestare l’inarrestabile. Non senza conseguenze.
Redazione Melting Pot
Di seguito le prime considerazioni di Fulvio Vassallo Paleologo,docente di Diritto Privato e di Diritti Umani presso l'Università di Palermo.
Una direttiva che isola ed uccide
In tutta Europa si assiste ad un continuo inasprimento delle attività
di contrasto delle migrazioni irregolari ed alla persistente chiusura
delle vie legali di ingresso. L’Unione Europea non è neppure riuscita
ad adottare una direttiva sugli ingressi per lavoro e quelle adottate
in materia di asilo e protezione umanitaria, consentono ancora
trattamenti molto differenziati tra i diversi paesi e prassi delle
autorità amministrative che impediscono generalmente l’accesso
effettivo alla procedura di asilo.
Il Parlamento Europeo, piegandosi alla volontà del
Consiglio, ha approvato adesso, senza apportare neppure un emendamento,
una direttiva sui rimpatri forzati che, anche se priva di un immediato
effetto vincolante, potrebbe costituire ulteriore stimolo per molti
paesi, come l’Italia, nella direzione di un ulteriore inasprimento
delle normative e delle prassi in materia di respingimento, espulsione
e detenzione amministrativa.
Si consente così agli stati membri di estendere il periodo di detenzione amministrativa per i migranti irregolari fino a 18 mesi,
una prescrizione che in alcuni paesi come l’Italia appare in stridente
contrasto con il dettato costituzionale ( art. 13), che stabilisce
limiti precisi. Qualunque tentativo di trasposizione automatica della
direttiva nel nostro ordinamento dovrà essere sottoposto al giudizio
della Corte Costituzionale.
Si creano regole processuali diverse per i migranti irregolari,
consentendo di abolire l’effetto sospensivo del ricorso, in violazione
dell’art. 24 della Costituzione italiana che sancisce il diritto di
difesa, e dell’art. 6 della Convenzione Europea a salvaguardia dei
diritti dell’uomo che afferma per tutti gli esseri umani, compresi i
migranti irregolari, il diritto ad un processo equo, la presunzione di
innocenza e il diritto ad un ricorso effettivo. Per questa ragione la
direttiva dovrà essere immediatamente impugnata davanti alla Corte di
Giustizia UE di Lussemburgo che non potrà non tenere conto della
giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Si prevedono l’espulsione ed il trattenimento dei minori non accompagnati, così come delle famiglie con minori
in violazione delle convenzioni internazionali che proteggono i diritti
dei minori comunque, quale che sia il loro status legale. In questo
modo si espongono i soggetti più vulnerabili alle violenze che
subiscono nei paesi dai quali fuggono o transitano. Si dovrà quindi
denunciare la direttiva all’Alto commissariato delle nazioni Unite per
i diritti umani ed alle organizzazioni internazionali che difendono i
diritti dei minori.
Viene previsto un divieto di reingresso di cinque anni,
per quanti abbiano subito un provvedimento di espulsione, creando così
le condizione per un riprodursi incontrollabile della clandestinità, in
quanto tutti coloro che ricevono un provvedimento di espulsione
valevole ormai in tutta Europa, sono condannati, praticamente per
sempre, a muoversi come clandestini ed ritentare in questa condizione
un ingresso irregolare.
Ma soprattutto, l’aspetto più allarmante della direttiva, sul piano delle relazioni internazionali, consiste nel fatto che si apre per la prima volta la possibilità di deportare migranti irregolari nei paesi di transito,
ai quali l’Unione Europea si impegna a corrispondere ingenti somme per
blindare le frontiere meridionali e per la successiva deportazione
verso i paesi di provenienza, sempre che questa si possa stabilire. Si
legittima così un ignobile mercato di esseri umani, nel quale già il
governo Berlusconi si è cimentato nel 2004 e nel 2005 quando ha
trasferito migliaia di migranti direttamente da Lampedusa verso la
Libia, malgrado la condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
D’altra parte appare evidente come prolungare la
detenzione amministrativa, al di là dei dubbi di legittimità, non
consenta certo una più efficace politica delle espulsioni se non si
compra la collaborazione dei regimi dittatoriali che governano i paesi
di transito. Ognuno, del resto si sceglie gli alleati che si merita.
Le conseguenze della direttiva rimpatri
Adesso ci si può attendere che delle politiche comunitarie in materia
di immigrazione ed asilo si rivolgano alla stipula di accordi di
cooperazione nella “lotta” all’immigrazione clandestina, da ultimo con
paesi di transito come la Mauritania ed il Ghana. L’approvazione della
direttiva sblocca ingenti fondi comunitari che saranno versati nelle
casse dei dittatori che governano i paesi di transito allo scopo di
esternalizzare i controlli di frontiera, impedire l’accesso in Europa
ai richiedenti asilo ed ai soggetti più vulnerabili come donne e
bambini.
Detenere e deportare sono le principali direzioni nelle
quali si sta muovendo la diplomazia europea nei confronti dei paesi di
provenienza e di transito. L’approccio è sempre quello della “condizionalità migratoria”:
in cambio di aiuti economici e di limitate possibilità di ingresso
legale per i cittadini di quei paesi, si ottiene un maggiore impegno
nell’arresto e nella successiva espulsione, o nel respingimento verso
altri paesi dei migranti in transito, molti dei quali provenienti da
lontano, spesso potenziali richiedenti asilo.
Gli accordi di riammissione con i paesi nordafricani
sono basati sul presupposto che questi paesi, ad
eccezione della Libia, abbiano aderito alla Convenzione di Ginevra sui
rifugiati. Quando poi si va a
considerare la dimensione effettiva del diritto di asilo in questi
stati si verifica come questo venga riconosciuto in poche centinaia di
casi. Non si può ritenere sufficiente l’adesione
formale alla Convenzione di Ginevra, se poi i singoli stati si
comportano in modo da violare i
principi essenziali di quella convenzione, e neppure consentono il
tempestivo intervento dei
funzionari dell’ACNUR.
Dopo l’approvazione della direttiva della vergogna si
darà spazio ancora più ampio alla cd. “cooperazione pratica”:intese di
polizia dei diversi paesi che molto spesso stabiliscono
discrezionalmente modalità operative e di ingaggio dei mezzi che vanno
ben oltre le regole comunitarie e le prescrizioni costituzionali,
ritenuti da alcuni inutili formalismi che non risultano funzionali nel
contrasto all’immigrazione irregolare. Anche le direttive ed i
regolamenti comunitari rischiano di restare sullo sfondo, quando si
tratta di combattere la “guerra all’immigrazione clandestina”. Le
condizioni di vita nei centri di detenzione saranno ancora una volta
rimesse alla totale discrezionalità delle forze di polizia. E saranno
introdotte limitazioni anche per l’esercizio dei diritti di difesa.
Numerosi strumenti internazionali, accordi di
riammissione e accordi di polizia, di fronte all’evidente natura mista
dei flussi migratori irregolari, composti da migranti economici e da
potenziali rifugiati, fanno salvi (almeno sulla carta) i diritti dei
richiedenti asilo, ma non fanno alcuna menzione a coloro che potrebbero
potenzialmente ottenere in Europa uno status di protezione sussidiaria,
regime introdotto a partire dal 2004 con diverse direttive che i
diversi stati europei stanno provvedendo ad attuare con grande
lentezza, e talora in modo difforme da quanto previsto a livello
comunitario. Adesso, con l’approvazione della direttiva rimpatri, una
buona parte delle direttive comunitarie in materia di asilo e di
protezione internazionale, e le relative leggi nazionali che le hanno
attuate dovranno essere ribaltate.
Secondo numerose testimonianze, raccolte da operatori
umanitari e giornalisti, consultabili nei siti di Migreurop (Parigi),
di PICUM ( Bruxelles), di Border Europe ( Berlino) e di Fortress Europe
(Roma), confermate da rapporti di agenzie internazionali come Amnesty o
Human Rights Watch (HRW), facilmente reperibili nei siti di queste
organizzazioni, numerosi paesi europei impegnati nelle operazioni di
contrasto dell’immigrazione clandestina non rispettano neppure le
regole procedurali vincolanti dei Trattati internazionali, delle
direttive e dei regolamenti comunitari.
Si assiste dunque ad una moltiplicazione degli
strumenti di contrasto nella lotta contro l’immigrazione clandestina
con norme, accordi internazionali bilaterali o multilaterali, pratiche
concordate a livello di forze di polizia o di gruppi operative tecnici,
emanazione dei ministeri dell’interno e degli esteri o di specifici
comitati o gruppi di lavoro a livello comunitario, con un crescente
pregiudizio per la vita umana dei migranti definiti come “clandestini”,
in parte richiedenti asilo ed in parte costretti all’ingresso
irregolare per l’assenza di canali legali di ingresso per lavoro o per
ricongiungimento familiare
Sempre più evidente in questi casi il rischio che i
programmi e le attività di contrasto dell’immigrazione clandestina
adesso inasprite dalla direttiva sui rimpatri, possano scaricarsi sulle
vite dei migranti, una parte dei quali appartiene sicuramente, secondo
quanto dichiarato dall’ACNUR, alla categoria dei richiedenti asilo. Tra
gli altri sempre più numerosi i soggetti particolarmente vulnerabili
come donne e bambini sottoposti ad ogni genere di abusi nei paesi di
transito come la Libia, la Tunisia e l’Algeria.
Gli effetti dell’approvazione della direttiva sui
rimpatri saranno devastanti, a livello interno ed a livello
internazionale. Il prolungamento della detenzione amministrativa fino a
18 mesi farà esplodere il sistema già in crisi dei centri di detenzione
amministrativa, il numero delle vittime sarà assai elevato, anche in
termini di vite umane, e le conseguenze sulla convivenza tra migranti e
cittadini probabilmente irreversibili. Alla costruzione del “nemico
interno”, sancita dalla direttiva della vergogna, corrisponderà una
diffusione dei conflitti sul territorio da parte delle comunità che si
sentiranno ogni giorno sotto attacco. La chiusura definitiva di ogni
speranza di integrazione e di coesistenza pacifica.
A livello internazionale si segnalano già le voci di
numerosi paesi del Sud e dell’America Latina che hanno protestato per
la approvazione della direttiva rimpatri. Una politica europea
sull’immigrazione esclusivamente incentrata sugli strumenti repressivi
e sugli apparati di polizia non potrà che avere conseguenze assai
negative, come già annunciato, sul piano del commercio e delle
relazioni internazionali.
In ambito comunitario le cd. Politiche di protezione regionale ( PPR) o le nuove Politiche di
vicinato (PEV) non possono essere finalizzate, di fatto, all’esclusivo scopo di bloccare gli ingressi,
facilitare i rimpatri forzati ed esternalizzare i sistemi di detenzione amministrativa e di
allontanamento forzato, magari in cambio di modesti aiuti economici o di esigue quote di ingresso
legale. In presenza di “flussi migratori misti”, come rilevato anche dall’Alto Commissariato delle
Nazioni Unite per i rifugiati ( ACNUR), occorre invece realizzare una effettiva politica comunitaria
di protezione nei confronti dei richiedenti asilo o protezione umanitaria, con una disciplina
uniforme del diritto di asilo e di protezione umanitaria nei diversi stati europei, basata sulla
distribuzione degli interventi di accoglienza (burden sharing) con una particolare tutela dei soggetti
vulnerabili ( donne, minori, vittime di tortura), ma anche riaprendo canali di ingresso legale per
ricerca di lavoro, ed introducendo meccanismi di regolarizzazione permanente individuale sulla
base del modello adottato alcuni anni fa dalla Spagna.
Contro le organizzazioni che gestiscono il traffico dei
migranti, piuttosto che norme inutilmente vessatorie, come quelle
contenute nella direttiva sui rimpatri, vanno riaffermati il principio
di legalità e gli strumenti di monitoraggio delle attività delle
polizie locali. Come è confermato da numerose testimonianze in molti
paesi di transito la corruzione della polizia e le organizzazioni
criminali dei trafficanti di uomini formano un sistema unico che
stritola migliaia di vite e che risulta invisibile soltanto ai
governanti europei che con gli stati del Nord-Africa non esitano a
concludere
accordi di riammissione che sulla carta richiamano i diritti
fondamentali ed il diritto di asilo, ma che
nella pratica si riducono a pratiche di deportazione e di schiavitù
indegne di un qualsiasi
paese che voglia continuare a definirsi democratico.
E ora?
La prima linea di intervento va individuata a livello europeo e
consiste nel sostegno a tutte quelle azioni positive poste in essere da
enti locali e da ONG, che a livello nazionale ed internazionale,
soprattutto nei paesi di transito, si rivolgono alla tutela dei
richiedenti asilo e protezione umanitaria, rivendicando oggi ancora più
forte che in passato una diversa politica dell’immigrazione e
dell’asilo. Vanno intensificate le azioni di denuncia e di assistenza
legale.
Al posto degli accordi di riammissione, gli accordi di
cooperazione economica dovranno restituire un ruolo progettuale alle
organizzazioni non governative ed agli enti locali, anche per
diffondere informazioni corrette sulle prospettive dell’emigrazione in
Europa e per fornire un sostegno alle famiglie dei candidati
all’emigrazione clandestina.
Occorre stabilire poi una nuova disciplina degli
ingressi legali per lavoro, a livello nazionale, se non sarà possibile
trovare una intesa a livello europeo. Se non si introdurranno al più
presto forme di regolarizzazione individuale in tutta Europa occorrerà
ricorrere ad un ennesima sanatoria generalizzata. Va comunque
moralizzato il mercato del lavoro. Altrimenti il lavoro informale
costituirà una potente attrazione che nessuna nave militare e nessun
campo di detenzione amministrativa riuscirà ad offuscare.
Di fronte alla composizione mista dei flussi migratori occorre un regolamento europeo che superi la
Convenzione di Dublino e garantisca la salvaguardia della vita umana in mare e la protezione dei
soggetti più vulnerabili come i richiedenti asilo, le donne ed i minori. In particolare si devono
depenalizzare al più presto gli interventi di salvataggio in mare da parte delle imbarcazioni non
militari, in modo da rendere più tempestive le azioni di salvataggio.
In senso opposto rispetto a quanto si sta facendo in
Italia, va modificata la disciplina nazionale delle espulsioni e dei
respingimenti, considerandola strumento eccezionale e non metodo
ordinario di gestione dell’immigrazione. Rivendichiamo ancora oggi il
diritto di chiedere la chiusura degli attuali centri di detenzione
amministrativa e dei centri di identificazione. Con il prolungamento
della detenzione amministrativa a 18 mesi queste strutture, in tutta
Europa, esploderanno.
Devono essere evitate pratiche di polizia concretamente
riconducibili al divieto di espulsioni collettive vietate dalla
Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo. Malgrado
l’approvazione della direttiva sui rimpatri, vanno interrotti
immediatamente i finanziamenti concessi dai governi europei ai paesi di
transito per mantenere centri di raccolta dei migranti irregolari, che
assumono spesso, come rilevato in Libia da Human Rights Watch e da una
delegazione del Parlamento europeo, il carattere di veri e propri
lager. Come vanno interrotti i finanziamenti europei dei voli con i
quali gli stati di transitano restituiscono molti potenziali
richiedenti asilo alla polizia dei paesi, come l’Eritrea, dai quali
questi sono fuggiti.
In questo quadro, può costituire la premessa per gravi violazioni dei diritti fondamentali della
persona il coinvolgimento nelle pattuglie FRONTEX di unità navali di paesi che non rispettano i
diritti dei richiedenti asilo, come Malta e la Libia. Non si dovranno più verificare espulsioni o
respingimenti verso paesi che non garantiscono i diritti fondamentali della persona umana, a partire
dal diritto di asilo. Piuttosto che finanziare campi di detenzione amministrativa nei paesi di transito,
strutture che diventano luoghi di abusi e di traffici di ogni tipo, occorre istituire, negli stessi paesi
di transito, veri e propri centri di accoglienza per i richiedenti asilo. Bisogna estendere l’istituto
dell’asilo extraterritoriale, dare quindi la effettiva possibilità di presentare una richiesta di asilo nei
paesi di transito e di garantire un rigoroso rispetto del principio di non refoulement previsto dalla
Convenzione di Ginevra.
Deve essere riconsiderata dai Parlamenti nazionali la materia degli accordi di riammissione, sia
perché in contrasto con le normative internazionali ed interne in materia di protezione dei diritti
fondamentali della persona migrante, sia perché le azioni di polizia attuate sulla base di tali accordi
sono sottratte ad ogni effettivo controllo giurisdizionale. Gli accordi già stipulati con i paesi di
transito e di provenienza vanno revocati o comunque rinegoziati, ed eventuali accordi futuri,
comunque discussi ed approvati dalle assemblee parlamentari, dovranno essere strettamente
conformi alle norme internazionali e costituzionali sulla tutela dei diritti fondamentali della persona,
a partire dalla Carta di Nizza, che vieta le espulsioni collettive, e dalla Convenzione Europea a
salvaguardia dei diritti dell’uomo, che prevede, in caso di violazione, mezzi immediati di ricorso
davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
CITTADINANZA EUROPEA, IL TERRENO DI LOTTA.
E’ arrivato il momento di porre al centro di una delle riflessioni che ci accompagnano ormai da tempo- quella sulla mobilità dei migranti – le possibili soluzioni e i possibili scenari positivi.
Partendo da un paragone, quello con la Spagna, l’analisi delle politiche sull’immigrazione dei due Paesi ci fanno constatare la presenza in entrambe le legislazioni di un termine, l’integrazione. Questa parola assai vaga e ambigua, meramente materiale, diventa la carta jolly di ogni normativa che pur essendo nel suo dettato palesemente escludente, marginalizzante e selettiva, viene ampiamente condivisa nello scenario istituzionale per l’aggiunta di questo oramai obsoleto vocabolo. Con il suo inserimento all’interno di una legislazione, gli Stati destinano a questa innumerevoli risorse che non si sa dove vadano a finire, visto che di “integrazione” non se ne vede neppure l’ombra. Si genera il business, si attribuiscono ingenti quantità di fondi europei e nazionali e così facendo si prestano servizi qualitativamente scarsi ma con il grande profitto di chi li esercita.
Secondo l’ opinione di Kitty Calavita (University of California), “le leggi sull’immigrazione italiana e spagnola sottolineano sì la necessità dell’integrazione, epperò al tempo stesso accolgono gli immigrati esclusivamente in qualità di lavoratori, essendo il loro stato giuridico legato ai permessi di soggiorno temporanei”. L’apparente contraddizione (sicurezza ed integrazione) che permea la normativa italiana e spagnola- ma non temiamo di allargare l’intera questione a tutta l’Unione Europea- in realtà è una strategia economica e politica che mira ad istituzionalizzare l’irregolarità e la regolarità precaria e a relegarle ufficialmente ai margini della società europea in modo da poterle sfruttare nell’economia sommersa e in quella di basso livello.
La selezione di chi può entrare e chi no sulla base di semplici esigenze occupazionali porta al bivio dell’inclusione/esclusione. Quest’ ultima molte volte è preceduta dalla detenzione e quindi da un’ ulteriore confinamento che si estrinseca nei campi di detenzione amministrativa (cpt) o più semplicemente negli spazi all’interno dei quali i migranti vivono e si autorganizzano e all’esterno dei quali non possono e non vogliono uscire.
La stratificazione sociale dei migranti connessa alla durata del titolo di soggiorno (un anno, due anni, stagionale..) porta alla dispersione dell’intera massa potenziale della nuova cittadinanza e di conseguenza all’indebolimento di una eventuale coscienza collettiva. Ciò ostacola qualsiasi rivendicazione di diritti, portando alla creazione di una nuova categoria di “intoccabili” la cui utilità risiede proprio nella sua marginalità.
Questi sono i reali effetti che le politiche sull’immigrazione producono, altro che “integrazione”.
Queste politiche rivestono un ruolo fondamentale nella storia per aver trasformato e condotto sino al ventunesimo secolo il razzismo, che è diventato oggetto di una complessiva metamorfosi contemporanea. Le trasformazioni dei confini e i continui mutamenti sociali in atto, con le guerre, le calamità naturali e soprattutto con la nuova divisione nazionale e internazionale del lavoro globale ci conducono alla necessità di reinterpretare e ridefinire il concetto stesso di cittadinanza. Questa è strettamente collegata all’identità collettiva di una società occidentale impaurita dalla nuova generazione “meticcia”. Cittadini sono quelli comunitari, stranieri-immigrati sono coloro che giungono alle rive della “fortezza Europa”. Cittadinanza, per noi, vuol dire qualcosa di automaticamente acquisito dalla nascita, per loro il passo successivo alla stabilità economica e talvolta anche la realizzazione della propria esistenza frutto di un percorso di progressiva resistenza.
Il terreno-cammino della cittadinanza si muove a seconda dei vari punti di vista di chi lo intraprende, è un terreno quiete e allo stesso tempo ostile, irto di pericoli ed allo stesso tempo di desideri.
Continuiamo a domandarci ancora quale sia la strada progettuale da percorrere per un pari riconoscimento del diritto di cittadinanza:
è importante non prescindere dal “protagonismo e dalla lotte dei migranti” (Sandro Mezzadra
Università di Bologna) e dalle concrete pratiche di cittadinanza che essi promuovono. Queste stanno “provincializzando l’Europa. E stanno ponendo le basi perché la crisi della cittadinanza sul cui fondo agisce il nuovo razzismo sia occasione di un profondo ripensamento delle forme e delle norme della vita associata , a partire da una radicale reinvenzione della sintesi di libertà ed uguaglianza”.
Se non altro questo potrebbe realmente surrogare il termine integrazione, per lo meno al di fuori di ogni impianto legislativo o normativo che sia, e al di fuori di ogni perbenismo populista che nei fatti si sta dimostrando xenofobo e selettivo.
I diritti si conquistano e la cittadinanza è il terreno di questa irrinunciabile lotta. E’ la stessa cittadinanza a diventare luogo e fine del conflitto.