Rivolte all'interno della Fortezza Europa

A pochi giorni dall'approvazione della "direttiva della vergogna"  sui rimpatri da parte del Parlamento Europeo, si accendono focolai di rivolta all'interno del Cpt di Vincennes alle porte di Parigi, in seguito alla morte d'infarto di un sans-papier tunisino di 41 anni, lasciato morire come un cane all'interno della struttura detentiva proprio com'era successo qualche settimana fa ad Hassan Nejl,il ragazzo marocchino morto dentro il Cpt "Brunelleschi" di Torino, in seguito alle mancate cure da parte del personale che gestisce il centro. In seguito all'incendio divampato nei locali del Cpt di Vincennes alcuni migranti sono riusciti a fuggire.

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3 risposte a Rivolte all'interno della Fortezza Europa

  1. i scrive:

    Ennesima morte sans-papiers, ennesimo morto invisibile…

    [ da http://www.meltingpot.org ]

    MUORE UN IMMIGRATO NEL CENTRO DI IDENTIFICAZIONE DI CALTANISSETTA

    Neppure una riga di cronaca. Silenzio dimenticanza o omertà?

    Nella notte tra il 29 ed il 30 giugno un immigrato africano è morto nel centro di identificazione all’interno del centro polifunzionale ( CPT, CID e CARA) di Pian del lago, a Caltanissetta, dopo essersi sentito male nel pomeriggio della domenica, ed avere ricevuto, per quanto risulta dalle prime testimonianze, soltanto un bicchiere d’acqua (non si sa se con i soliti tranquillanti di cui si fa largo uso nei centri di detenzione).
    Solo nella mattina del 30 giugno quando alle 7,30 sono arrivati i medici della Croce Rossa ne è stato constatato il decesso, malgrado gli altri migranti avessero sollecitato per ore l’intervento di un medico.

    Nel centro si respira ancora un’atmosfera di grande tensione, probabilmente i migranti testimoni dei fatti saranno presto trasferiti altrove, in silenzio, prima che la vicenda diventi di dominio pubblico, come avviene di solito in queste circostanze. Anzi, in molti casi, la morte di uno significa la libertà di tanti altri, perché piuttosto che trattenere scomodi testimoni, si preferisce ributtare nella clandestinità quanti potrebbero raccontare cosa è successo. Tutto diventa più facile – se non è possibile una deportazione immediata – con la liberazione tempestiva e la consegna dell’ordine di lasciare entro 5 giorni del territorio nazionale. Senza soldi, senza documenti, un ordine impossibile da eseguire. Ed alla fine, scomparsi nella clandestinità i testimoni, nessuno ricorderà più nulla, neppure chi aveva il dovere di garantire la dignità, la salute e la vita di un immigrato senza nome rinchiuso in un centro di identificazione.

    Abbiamo atteso per ore un comunicato da parte della direzione del centro o della Questura di Caltanissetta, o una agenzia di stampa che almeno desse notizia del fatto, confermato da fonti diverse durante la giornata. Niente. Una cappa di silenzio è calata sul centro polifunzionale di Pian del Lago, mentre probabilmente si staranno sistemando registri e referti, testimonianze e documenti vari, per dimostrare che alla fine si è trattata, come al solito, di una tragica fatalità. Tutti erano al loro posto, tutti hanno fatto il proprio dovere, medici, operatori dell’ente gestore e poliziotti di guardia. Come al solito, nessun colpevole, nessun responsabile per la vita di un uomo, di un “clandestino”.

    Un copione tante volte visto, in Sicilia ed in altre parti d’Italia, ma di fronte al quale non cesseremo mai di esprimere la nostra indignazione. Ed una richiesta di chiarezza, in una struttura sempre più affollata, nella quale arrivano molti immigrati sbarcati a Lampedusa ancora da identificare, un centro che è stato negli anni teatro di episodi inquietanti sui quali ancora dovrebbe indagare la magistratura. Anche la relazione della Commissione De Mistura non aveva lesinato critiche alla gestione del centro di Caltanissetta, ed oggi la situazione sembra più grave che in passato, perché i centri di detenzione si vanno riempiendo per le retate di “clandestini” che la polizia sta intensificando nelle grandi aree urbane, mentre i centri di identificazione esplodono per l’aumento esponenziale degli sbarchi a Lampedusa ed in altre parti della Sicilia.

    Una giovane vita si spegneva nel centro di Pian Del Lago, e il ministro Ronchi dormiva a Lampedusa il sonno del “giusto”, o, dopo una lauta cena a base di pesce, era ospite di una qualche missione notturna delle forze navali che continuano a salvare vite umane nel Canale di Sicilia, malgrado le diverse direttive operative dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere marittime FRONTEX.

    Caro ministro, piuttosto che appropriarsi di meriti che non le appartengono, perché la situazione a Lampedusa è migliorata prima del suo avvento al governo, solo grazie al trasferimento ed alla apertura del centro alle organizzazioni umanitarie, a partire dal 2007, perché non spendeva una parola sul destino buio che attenderà in futuro i migranti dopo il loro arrivo a Lampedusa ? Soprattutto quelli che non riusciranno ad ottenere lo status di rifugiato o di protezione umanitaria, ma che in molti casi non sarà possibile espellere. Magari una breve dichiarazione, anche per avvertire che con il sovraffollamento dei centri di detenzione e di “accoglienza” nelle altre parti d’Italia, effetto delle nuove politiche securitarie del governo Berlusconi, dell’aggravante della clandestinità, del prolungamento a 18 mesi della durata della detenzione amministrativa, a Lampedusa si rimarrà non solo due ma anche dieci -dodici giorni, e forse mesi, come in passato, ai tempi del precedente governo Berlusconi, in 1600 persone, in uno spazio che ne potrebbe accogliere meno della metà. Mentre i fondi per finanziare la seconda accoglienza ed il sistema di protezione per i richiedenti asilo verranno drasticamente tagliati.

    Un vero albergo a cinque stelle lo diventerà di certo in futuro, il nuovo centro di accoglienza di Lampedusa, forse talvolta un po’ troppo affollato, ma al sicuro da giornalisti curiosi ( come Gatti non ce ne sono tanti in giro) e da magistrati invadenti ( Il Tribunale di Agrigento è lontano). Magari il ministro potrebbe mandarci qualche suo dipendente in vacanza, così almeno potrebbe essere un poco più informato di quelle tragedie quotidiane dell’immigrazione che si consumeranno nel silenzio, in futuro anche a Lampedusa, come negli altri centri di detenzione in Italia. L’estate è lunga e non appena il nuovo pacchetto sicurezza sarà approvato, e i centri di detenzione in Italia arriveranno al collasso, Lampedusa scoppierà di nuovo, a meno che qualcuno non ritorni alla prassi ignobile di rispedire i migranti appena arrivati, in Libia, nelle carceri e nei fossati desertici che Gheddafi chiama centri di accoglienza, una pratica per la quale la Corte Europea dei diritti dell’uomo nel 2004 ha condannato l’Italia.

    Intanto, per l’ennesima volta, non rimane che chiedere chiarezza sulle circostanze della morte del migrante senza nome che ha concluso il suo viaggio della speranza, e la sua vita, nel centro di identificazione di Caltanissetta. Almeno che sia fatta una autopsia e che questa non sia quella farsa che spesso diventa nei tribunali siciliani (a Palermo si attende ancora di conoscere il risultato dell’autopsia di una donna rom morta otto mesi fa, all’ospedale di Villa Sofia, per cause mai chiarite). Vorremmo che qualche magistrato cerchi di capire che tipo di servizio di assistenza garantisce la Croce Rossa nelle diverse sezioni del centro polifunzionale di Caltanissetta. E vorremmo che si facesse finalmente chiarezza sul personale civile impiegato in questa struttura. Magari anche per sapere chi fosse presente al momento del decesso dell’immigrato, e chi fosse il responsabile in quel momento dell’ente gestore. Soprattutto vorremmo un magistrato che abbia la voglia di accertare se nel centro si continua ancora a fare largo uso di psicofarmaci. Alcuni anni fa, qualcuno aveva definito anche Pian del lago come un albergo a cinque stelle. La penna dei velinari si ripete sempre ma la realtà è più forte delle menzogne e delle omertà.

    di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo

    [ martedì 1 luglio 2008 ]

  2. s scrive:

    [ da http://www.meltingpot.org]

    ANCORA MORTE A VENEZIA, FRONTIERA D'EUROPA

    Un altro morto e altri respingimenti al Porto di Venezia nel giorno in cui le Associazioni convocano una conferenza stampa.

    Alle undici del mattino la notizia ha cominciato a circolare e appena mezz’ora dopo era già una certezza: ancora un morto, ancora un uomo curdo iracheno, ancora su un tir, ancora proveniente dalla Grecia.

    Non è un caso, non si tratta di una macabra coincidenza, il fatto che questa morte sia avvenuta proprio nella mattina in cui quasi cinquanta associazioni di Venezia, tra cui anche Melting Pot, si erano date appuntamento per una conferenza stampa che parlasse di quell’altro ragazzo morto in quell’altro tir, appena cinque giorni prima. Non è un caso perché si tratta di eventi strutturalmente connessi con le modalità di controllo delle frontiere d’Europa, di cui il porto di Venezia è un esempio emblematico.

    Ci vogliono tragedie come questa, che si susseguono senza sosta e poche volte vengono alla luce, per accendere i riflettori almeno per un attimo su queste vite e su queste morti.
    Solo quando si è diffusa la notizia di questo secondo cadavere, più recente, più vicino di quell’altro già dimenticato, molti giornalisti che avevano disertato la conferenza stampa delle associazioni si sono decisi a prendervi parte.
    Forse stavolta nessuno darà la notizia semplicemente tra le previsione del tempo, dicendo che a Venezia qualcuno è morto dentro un tir per il caldo asfissiante, come ha fatto il Tg1 il 22 giugno sera.

    I giornalisti intervenuti hanno infatti potuto ascoltare le denunce di chi, come Edoardo Montagnani, lavora per il Consiglio Italiano Rifugiati e ha dichiarato di non riuscire a svolgere le proprie mansioni di orientamento giuridico dei migranti lì al porto, vedendo in tal modo, davanti ai propri occhi, quotidianamente, violati il diritto non solo a chiedere asilo politico di molte delle persone che vengono respinte dalla polizia di frontiera, ma anche quello alla vita e alla dignità.
    “in Grecia la situazione per i migranti e i richiedenti asilo è particolarmente difficile”, ha dichiarato, “l’Acnur, ma anche la Commissione europea hanno spesso espresso preoccupazione in questo senso”.

    E infatti Latif, un 17 enne afghano venuto a raccontare con coraggio la sua storia, interrogato dai giornalisti sul viaggio fatto dice, senza mezzi termini, che un solo giorno in Grecia è come una discesa all’inferno. Ammassati nei centri di detenzione, picchiati senza motivo, senza avere accesso a servizi igienici, con pochissimo cibo e nessuna possibilità di rivendicare i propri diritti.
    E’ questo il paese in cui la polizia di frontiera del porto di Venezia respinge chi arriva. Anche Latif è arrivato nascosto dentro un tir. Lui che è minorenne e proviene da una zona di conflitto. Non c’è altra possibilità per quelli come lui. Non esiste alcun modo di fare ingresso legale in Italia per chi è in fuga.
    Ma almeno lui ce l’ha fatta e ora può raccontare la sua storia pensando a tutti quelli che non ci sono più.

    A denunciare le stesse difficoltà incontrate da chi opera al Cir nel cercare semplicemente di fare il proprio lavoro consistente nella tutela di diritti giuridicamente sanciti, anche Rosanna Marcato e gli altri operatori del Servizio Pronto Intervento Sociale del Comune di Venezia, servizio che ha rinunciato a lavorare al porto proprio per questa ragione.
    A seguire le parole del Professore Bruce Leimsidor, esperto in legislazione europea dell’immigrazione e quindi particolarmente dettagliato nello spiegare quanto profondamente e pericolosamente il diritto d’asilo venga svuotato e stralciato in queste pratiche di respingimento.
    E poi l’Assessore alla pace Luana Zanella, a ricordare a tutti che è davvero un triste modo di celebrare il sessantesimo anno della Costituzione italiana e della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, questo lasciare morire ogni giorno alle frontiere persone che dovrebbero invece essere, proprio secondo questi testi, accolte e tutelate. Zanella ha poi ringraziato le Associazioni presenti, quest’altra faccia di Venezia che cerca di immaginare ancora, veramente, una città dei diritti e dell’accoglienza.

    Mentre la conferenza stampa volgeva al termine, i migranti sopravvissuti a questa ennesima giornata di morte venivano ancora una volta respinti verso la Grecia.
    Solo uno e solo perché si trovava esattamente nello stesso tir dove è stato trovato il corpo senza vita del giovane curdo, per motivi giudiziari quindi, ha potuto restare e ha fatto richiesta d’asilo.

    Bisogna sfiorare la morte perché diritti minimi come questo vengano garantiti.
    Oppure per entrare in Italia bisogna essere già morti, come è successo già due volte nell’ultima settimana.

    di Alessandra Sciurba

    [ venerdì 27 giugno 2008 ]

  3. da meltingpot scrive:

    Le frontiere della morte. Cosa accade al porto di Venezia?
    E’ morto un giovane iracheno, già respinto giorni prima nonostante potesse chiedere asilo.

    Chiamiamolo Kawa, anche se ancora non conosciamo il suo nome. È il ragazzo di 25 anni e di origine irachena trovato morto dentro un tir che viaggiava su una nave proveniente dalla Grecia e appena entrata nel Porto di Venezia.
    Neppure il suo compagno di viaggio sa come si chiamasse. A cosa serve chiedere il nome di chi ti sta accanto in avventure come questa? Forse solo dopo, una volta arrivati da qualche parte, avrebbe senso farlo.

    Ma una cosa, il ragazzo che ha conosciuto e visto morire Kawa, se la ricorda benissimo. Cinque giorni prima di quel giorno di morte entrambi erano già arrivati al porto di Venezia ed erano stati rimandati indietro.
    “Respingimento alla frontiera”, si chiama questa pratica ed è svolta dalla polizia nei luoghi come porti, aeroporti, frontiere terrestri. Esistono degli enti, come il Cir, che dovrebbero intercettare chi sta per venire respinto e accertarsi quanto meno del fatto che non si tratti di un potenziale richiedente asilo. Questi enti dovrebbero sempre e comunque informare ciascuno della possibilità di chiedere asilo politico e di tutti gli altri diritti cui potrebbe accedere.

    “Il Ministero dell’Interno stanzia cifre ingenti affinché esistano delle strutture incaricate di fare orientamento ai migranti che arrivano in porto” Spiega Rosanna Marcato, responsabile del Servizio del comune di Venezia che si occupa di Rifugiati, “ma tutto invece avviene nell’oscurità, non si riesce ad intercettare ed aiutare le persone. Per questo motivo noi abbiamo scelto di andare via dal porto”.

    Il porto di Venezia come quelli di Bari o di Ancona, e tutti quanti gli altri. Buchi neri, luoghi militarizzati in cui si decide della vita e della morte dei migranti secondo prassi amministrative che non garantiscono alcuna attenzione per i casi soggettivi (minori, malati, richiedenti asilo)e alcuna tutela per i diritti fondamentali delle persone. per sfuggire a questi controlli senza regole, i migranti sono costretti ad inventare modi sempre più rischiosi per aggirarli, a sfidare continuamente la morte per non farsi intercettare e rispedire al punto di partenza.

    I respingimenti, infatti, sono sempre più azione di routine, svolta esclusivamente da uomini in divisa che non hanno evidentemente gli strumenti per sapere chi stanno rimandando indietro. E stavolta chi ha respinto kawa quando era riuscito ad arrivare per la prima volta, da vivo, ha in qualche modo da affrontare una responsabilità pesante.

    Kawa, curdo iracheno che avrebbe con tutta probabilità potuto ottenere asilo nel nostro paese, ci ha riprovato. Ma lo ha fatto nel momento peggiore. Più di trenta gradi, un caldo asfissiante.
    “In tutta la mia vita non ho mai sentito caldo come lì dentro” racconta uno dei sopravvissuti che si trovano ora (per fortuna) al centro di accoglienza Boa del Comune di Venezia, arrivati lì, in maniera surreale, nel mezzo di una bella festa organizzata per la giornata del rifugiato del 2008, la sera della partita Italia-Spagna del campionato europeo.
    “Dopo solo otto ore avevamo già finito l’acqua e siamo rimasti chiusi lì dentro per un giorno e una notte interi”.

    Tutti loro avevano già alle spalle mesi e mesi di viaggio attraverso mezza Asia e mezza Europa, alla ricerca di un posto in cui potersi fermare.
    Vengono dall’Iran, Dalla Siria, dall’Iraq, ma anche dalla Mauritania e dal Marocco. Hanno seguito la rotta che dal medio Oriente porta alla Turchia e si sono ritrovati tutti in Grecia, a tentare la sorte insieme, sapendo che in quel paese non potevano restare, in questa roulette russa dei percorsi migratori, confinati da dispositivi di controllo sempre più stringenti, ma ancora frutto di strategie di resistenza , di aggiramento, di esistenza, capaci di determinare almeno in parte le direzioni e le scelte.

    Scegliere di non fermarsi, nonostante tutto, sapendo perfettamente a cosa si andrà incontro.
    I ragazzi sopravvissuti non erano sconvolti nella maniera in cui lo sarebbero stati la maggior parte dei nostri ventenni italiani dopo avere assistito alla morte di qualcuno lì, a un passo da te. Qualcuno che avresti potuto certamente essere tu.
    E non lo erano non in quanto insensibili o cinici, ma perché, oltre ad avere già attraversato, nella loro breve vita, situazioni di guerra e conflitti per noi a stento immaginabili, sapevano fin da subito cosa stavano rischiando.

    La consapevolezza di chi parte è spaventosa e straordinaria. E gli attuali tentativi di controllare con la violenza questa mobilità sembrano tanto più crudeli di fronte e a queste incredibili risorse umane.
    Un ipotetico reato di immigrazione clandestina o la concretissima direttiva europea sui rimpatri avranno come effetti certi la morte di migliaia di persone e spesso di persone come kawa, che avrebbero potuto essere tutelate anche ai sensi delle leggi vigenti.

    Il fatto che nelle operazioni di respingimento, espulsione, rimpatrio, il diritto di asilo sia uno dei primi a correre il rischio di venire annientato, è solo una delle evidenti conseguenze di questa modalità di gestione della mobilità dei migranti.
    Ci sono moltissimi Kawa di cui non sapremo mai nulla e il cui corpo è finito chissà dove, scomparso come gli altri corpi andati giù nel Mediterraneo.
    Ci sono sempre storie come queste dietro di dispositivi di detenzione ed espulsione che si stanno sempre più affinando anche a livello comunitario.

    Questa morte avviene, per ironia della sorte, ad un anno esatto dal ritrovamento, alla Bazzera di Mestre, dei corpi di tre ragazzi iracheni morti per asfissia dentro un tir che trasportava angurie.
    di Alessandra Sciurba

    [ lunedì 23 giugno 2008 ]

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