L'Italia retrocede al 44° posto nella quarta edizione del Climate Change Performance Index

Presentato anche quest'anno il CCPI, la classifica dei risultati e dell'impegno dei paesi nella lotta al cambiamento climatico. Pessima figura dell'Italia, che retrocede anche per la mancanza di politiche coerenti e decise contro i gas serra.

Nessun paese sta facendo abbastanza per fermare il global warming. A livello globale le emissioni crescono e cresce anche la quantità di CO2 rilasciata per unità di Pil. In questo panaroma l’Italia è tra i paesi che stanno facendo meno per ridurre le emissioni. È quanto emerge dalla quarta edizione del Climate Change Performance Index (CCPI), il documento in cui Germanwatch, assieme alle associazioni ambientaliste riunite nel Climate Action Network Europe, mette a confronto le prestazioni e le politiche in materia di lotta al global warming dei 57 paesi che assieme sono responsabili del 90% delle emissioni.

Nella classifica di quest’anno – è stato spiegato alla presentazione del documento – il podio è stato lasciato volutamente vuoto proprio perché nessun paese si sta impegnando a sufficienza nel taglio della CO2. I paesi che stanno facendo di più per ridurre le loro emissioni – Svezia, Germania e Francia – sono così rispettivamente al 4°, 5° e 6° posto nella graduatoria. Oltre che dei risulti raggiunti nella riduzione delle emissioni in termini assoluti, l’indice CCPI tiene conto del trend (che conta per il 30% del punteggio) e delle politiche interne e internazionali di ogni paese in materia di lotta al global warming (20%). Anche ai 3 paesi "più virtuosi", specialmente alla Germania, CAN-Europe rimprovera l’arretramento nei negoziati europei per il pacchetto clima: recentemente la premier tedesca Angela Merkel sta cercando di ottenere sconti sulle emissioni per l’industria tedesca.

Ultima nella classifica l’Arabia Saudita, preceduta da Canada e Stati Uniti. Gli Usa, rispetto all’anno scorso, hanno scavalcato il vicino per alcune politiche attuate a livello statale, mentre la speranza dei redattori del CCPI è che il nuovo corso annunciato da Obama aiuti il paese che emette più CO2 al mondo a risalire decisamente la graduatoria per l’anno prossimo. Progressi significativi vengono invece dai paesi emergenti. La Cina – secondo emettitore mondiale – pur non avendo modificato sostanzialmente il trend delle emissioni ha avuto un ottimo punteggio per quel che riguarda le misure adottate e anche l’India è stata premiata per il basso livello di emissioni pro capite e le politiche intraprese.L'Italia, al contrario dei paesi emergenti citati, peggiora e perde 3 posizioni rispetto all’anno scorso, scivolando dal 41° al 44° posto, per arrivare, guarda caso, proprio accanto all’altra nazione che più si sta adoperando per ostacolare i negoziati europei sul pacchetto clima-energia che si stanno svolgendo ia Bruxelles.Oltre al fatto che, a 11 anni dal protocollo di Kyoto, anziché ridurre le emissioni del 6,6% rispetto ai livelli del 1990, l’Italia le ha aumentate del 9.9%, a spingere il paese così in basso nella classifica c’è l’assenza di una strategia complessiva per abbattere le emissioni di CO2, una politica energetica che punta sull'aumento dell'uso del carbone e la carenza di trasporti a basse emissioni.

A salvare l’Italia dagli ultimissimi posti della classifica le poche ma importanti misure adottate in questi anni, come il conto energia per la promozione del fotovoltaico o gli incentivi del 55% per l’efficienza energetica. Misure che paradossalmente sono proprio quelle finite nel mirino dell’attuale governo, che dopo aver eliminato l’obbligo della certificazione energetica degli edifici, ha tagliato anche la detrazione fiscale del 55%".

Il Governo infatti con il decreto legge 185/2008, approvato venerdì 28 novembre, ostacola la detrazione fiscale del 55% per interventi di efficienza energetica e rinnovabili (una norma introdotta da Bersani che stava ottenendo un buon successo come dimostrano i 230.000 interventi realizzati tra il 2007 e il 2008 con riduzioni delle importazioni di combustibili e delle le emissioni di CO2). Un provvedimento assurdo perché comporterà entrate minime nelle casse statali e annullerà notevoli benefici economici diffusi.

Si pensa che per la prossima edizione del CCPI l’Italia possa andare ancora peggio, a causa della sua politica internazionale. Lo fanno temere le dichiarazioni rilasciate ieri da Berlusconi sul pacchetto-clima: "Domani esamineremo le proposte e io avrò la responsabilità di dire sì o no: se gli interessi italiani saranno colpiti, io opporrò il diritto di veto e non avrò nessuna esitazione a farlo", ha chiarito il premier, identificando probabilmente gli interessi italiani con quelli dei grandi emettitori e non con quelli di gran parte delle piccola e media impresa e del paese intero che dovrà affrontare gli effetti del global warming, effetti che per l’Italia paese, come spiegato dall’European Environment Agency, saranno, tra gli altri, desertificazione delle zone più secche, alluvioni e intensificazione degli eventi metereologici estremi.

Intanto il pacchetto clima ed energia al 2020 che mercoledì 17 dicembre, sarà al Parlamento europeo, nonostante le minacce di veto del Governo Berlusconi. Forse qualcuno teme l'introduzione di norme e sanzioni per decrementare le immissioni di Co2.

Il pacchetto clima prevede infatti che dal 2013 i produttori di elettricità europei paghino tutta la CO2 che emettono, senza sconti.

La proposta è infatti che dal 2013 in poi per il settore energetico tutti i permessi per l’emissione di CO2 vengano venduti all’asta. Finora invece chi produceva energia riceveva una quota di permessi gratuiti e paga solo se sforava. L’allarme che circola tra le aziende elettriche è dunque comprensibile: chi punta su fonti fossili come il carbone sarà sicuramente svantaggiato. Jürgen Gross, a.d. del gruppo tedesco RWE, il maggior emettitore europeo di CO2, dichiara preoccupato al Financial Times che la concorrente francese EDF, che conta su fonti con meno emissioni come il nucleare, con il pacchetto clima avrà un vantaggio competitivo di 40 miliardi di euro.

È l’inizio della fine per le compagnie elettriche con alte emissioni di gas serra? Piuttosto la fine di un periodo fortunato: il nuovo carico che dal 2013 peserà sui produttori di energia è in realtà solo la conclusione di una situazione da cui le compagnie elettriche europee hanno tratto ampi profitti.

Dal 2005, quando è stato introdotto l’emission trading europeo (ETS), i prezzi dell’elettricità sono infatti saliti per adeguarsi al costo dei permessi. Permessi per cui però le compagnie in realtà non pagano, a meno che non sforino la quota loro assegnata. Il risultato di questa differenza tra elettricità costosa e permessi forniti gratis, è quantificato dall’istituto di ricerca sull’ETS, Point Carbon, come un profitto extra di 71 miliardi di euro per le utilities europee per il periodo che va dal 2005 al 2012. Ora, con la proposta di far pagare tutti i permessi, questo extra profitto verrà annullato, a spese di chi emette di più.

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